L’alchimia del “particolare”

Può definire un vino e un oggetto di design, un nuovo formato di pasta e un quadro di Picasso, uno spot pubblicitario e un capo d’abbigliamento: è un aggettivo senza confini e senza significato, vuoto ma saccente, subdolo e generico, che ti attrae con la sua flessibilità, ti promette una nota estrosa, ma alla fine, come un patto faustiano, ti ruba l’anima dell’espressività. Dietro il suo aspetto innocuo, quasi servizievole, cela la sua vera essenza di pietra filosofale inversa che trasmuta l’oro dell’originalità nel piombo quotidiano del gergo da happy-hour. Livella i concetti verso il basso: imbriglia, appiattisce, uniforma in un’unica categoria il meraviglioso e l’insolito, l’eccentrico e il bello, l’eccellente e il gradevole, è capace di fondere nel suo crogiolo di insignificanza le bizzarrie dei mostri gotici e l’ultima lampada di Philippe Starck, confonde il dandy col trendy, riporta il sublime nell’ambito dell’artigianale, rasenta il “carino” ma si inventa una marcia in più. È più “particolare”. Ma sotto questa maschera di onnipotenza significante il “particolare” si rivela inadeguato a connotare, può soltanto alludere, finisce per degenerare nel suo contrario, rappresenta qualcosa “in generale” senza entrare nei particolari. Regna in un demi-monde linguistico che non ha né il rigore accademico né la spontaneità popolare. Pretenzioso come una pizza al salmone, il “particolare” è un atteggiamento prima ancora che una parola, un voler dimostrare che anche davanti a ciò che non si riesce a descrivere c’è pur sempre qualcosa dire: “particolare”.

(da Style Il Giornale, marzo 2013)


24.10.2014 / + +