Orgoglio lessicale
Ero nella mia agenzia a pagare l’assicurazione dell’automobile: così complessa che non c’è scritto da nessuna parte che è una polizza auto. L’ho messa sul banco e ho chiesto alle signorine che cos’era. “È la polizza rc auto” mi hanno risposto con la voce insicura di chi fiuta la trappola. Ok, mi dica dove c’è scritto – ho chiesto. Hanno cominciato ad andare in affanno. Non c’era scritto da nessuna parte. Si sono scusate, mi hanno dato ragione. Per pura crudeltà le ho comunque sottoposte alla lettura casuale di un brano di “polizza”: lunghe frasi ricche di subordinate, di ipotetiche e di termini cretini inventati apposta per confondere, “… liquida il sinistro senza applicazione dell’eventuale franchigia o scoperto (e dell’eventuale minimo) indicati nella Parte Prima…” . Poi ho pagato il “premio” e loro hanno “quietanzato”. Molto peggio sono i tecnici dei computer, imbronciati e silenziosi, sempre restii a fornire spiegazioni con un linguaggio comprensibile. A loro piace farneticare sul “firmware”, dare la colpa alla “motherboard”, mettere in dubbio la “cache”, far partire i “debug”. E se proprio non va, sarà la ram che “va in conflitto”. Però se invece io sento la “grafite” nel vino, non va bene, parlo in modo complesso. Ma pensa un po’. Nel vino non si può usare un linguaggio appropriato, se no uno “se la mena”, come ama dire Paolo Marchi. Incredibile.
Come si dovrebbe dunque descriverlo un vino? Cattivo, buono, buonissimo, eccellente o già eccellente è un termine troppo complesso?
Io capisco che vada di moda il populismo alla grande fratello, capisco che se uno usa il congiuntivo è considerato un intellettuale debosciato, capisco questa moda.
Ma è anche bello ribellarsi alle mode, è anche bello sentire il pan brioche senza tanti complessi, sentire il cuoio senza menarsela.
E soprattutto è bello essere orgogliosi del proprio lavoro e della propria cultura.
(da Chef, dicembre 2010)