Sono stato in un ristorante così tradizionale che i vini biologici li servivano col bicchierino di solforosa a parte. Tanto per non rinunciare al tradizionale mal di testa del giorno dopo.
L’inferno esiste: sono le olive ascolane. Con la loro triste panatura marroncina, color calza di nonna di paese. Molliccie. O durissime. Non sai mai. Con un ripieno che ricorda la carne umana. Le olive ascolane le servono a Guantanamo, come stuzzichino, come appetizer, come saluto dai secondini, per farti capire l’aria che tira.
Un’altra bufala che vien su bene è quella del cibo da strada. L’indigeribile lampredotto ad esempio. Che ignobile buffonata questa del cibo da strada, spacciato come fosse una tradizione, come se noi, fin da bambini divorassimo lampredotto e milza. Mentre per tutti è molto più familiare il caviale, usciamo da questa bolla d’ipocrisia del popolare a tutti i costi. Il caviale lo mangiamo tutti, fin da bambini, almeno nelle feste comandate.
Il caviale è tradizionale, il lampredotto è snob
(da Chef, aprile 2011)
Sul Grande Fratello ha detto bene Ignazio La Russa qualche anno fa, con la consueta schiettezza: il GF è un programma stupido, la gente potrebbe fare a meno di guardarlo, ma a noi politici invece è molto utile perché ci permette di tastare il polso del paese reale. Io penso che lo dovrebbero guardare anche i ristoratori se vogliono capire i loro clienti. Perché è nelle aule virtuali del GF che si formano tanti italiani, è lì che imparano a ruttare. È lì che imparano che aver personalità significa non far parlare il tuo interlocutore. È lì che imparano che più mangi più sei virile, più mangi carne più sei uomo. È lì che imparano la nuova lingua, il televisionese. Una strana e inedita lingua, divisa in due tronconi: il televisionese del sud che è un mix di romanesco e napoletano e indica il tipo italiano “virile” e il televisionese del nord un uvaggio bresciano-varesotto-veneto che indica il tipo “concreto”.
È una lingua contratta, dove il congiuntivo è un ricciolo barocco da intellettuale degenerato, con nuove parole come “aggredilo” coniata da Guendalina. E certo, vorrai mica dire al tuo pitbul “aggrediscilo”, e che è mai ‘sta parola lunga, ora che hai finito di pronunciarla sei già diventato gay, anzi è capace che il tuo stesso pitbul ti azzanni se ti sente parlare così forbito.
D’altra parte il Paese è diventato così becero che se non stappi Cristal al Billionaire ti becchi del radical-chic. E una volta stappato lo devi lasciare lì, chi sei per berlo, uno dei dei Verdi, uno che ha paura di sprecare, chi cazzo sei, uno di Greenpeace?
Per questo, sogno un ristorante al contrario, un ristorante crudelmente elitario, dove il patron e la sala fiutino spietati il cliente ignorante. “Per lei un bel Nero d’Avola, lo vedo già dalla faccia”, dove si senta il patron che sprona ad alta voce i camerieri “non proporre il foie gras al signore del tavolo 3, portagli un filettone se no si sente una checca”. Mentre al tavolo del patron i suoi amici, distinti e sportivi, eleganti e colti levano ad alta voce provocatori e privilegiati brindisi “noi stalloni beviamo solo Pessac-Leognan!”
(da Chef, marzo 2011)
Ero nella mia agenzia a pagare l’assicurazione dell’automobile: così complessa che non c’è scritto da nessuna parte che è una polizza auto. L’ho messa sul banco e ho chiesto alle signorine che cos’era. “È la polizza rc auto” mi hanno risposto con la voce insicura di chi fiuta la trappola. Ok, mi dica dove c’è scritto – ho chiesto. Hanno cominciato ad andare in affanno. Non c’era scritto da nessuna parte. Si sono scusate, mi hanno dato ragione. Per pura crudeltà le ho comunque sottoposte alla lettura casuale di un brano di “polizza”: lunghe frasi ricche di subordinate, di ipotetiche e di termini cretini inventati apposta per confondere, “… liquida il sinistro senza applicazione dell’eventuale franchigia o scoperto (e dell’eventuale minimo) indicati nella Parte Prima…” . Poi ho pagato il “premio” e loro hanno “quietanzato”. Molto peggio sono i tecnici dei computer, imbronciati e silenziosi, sempre restii a fornire spiegazioni con un linguaggio comprensibile. A loro piace farneticare sul “firmware”, dare la colpa alla “motherboard”, mettere in dubbio la “cache”, far partire i “debug”. E se proprio non va, sarà la ram che “va in conflitto”. Però se invece io sento la “grafite” nel vino, non va bene, parlo in modo complesso. Ma pensa un po’. Nel vino non si può usare un linguaggio appropriato, se no uno “se la mena”, come ama dire Paolo Marchi. Incredibile.
Come si dovrebbe dunque descriverlo un vino? Cattivo, buono, buonissimo, eccellente o già eccellente è un termine troppo complesso?
Io capisco che vada di moda il populismo alla grande fratello, capisco che se uno usa il congiuntivo è considerato un intellettuale debosciato, capisco questa moda.
Ma è anche bello ribellarsi alle mode, è anche bello sentire il pan brioche senza tanti complessi, sentire il cuoio senza menarsela.
E soprattutto è bello essere orgogliosi del proprio lavoro e della propria cultura.
(da Chef, dicembre 2010)
Volevamo leggere un’intervista un po’ diversa al patron di una grande tenuta italiana che produce vino ed olio, ma che ha anche un apprezzato ristorante del territorio. Per essere sicuri che le risposte ci piacessero ce le siamo direttamente inventate noi.
Come nasce il vostro vino?
Nasce in cantina, non certo in vigna. Qui in Tenuta Cà Furbin della vigna ci frega meno di zero. A noi la vigna ci piace mandarla in malora. Anche perché abbiamo un enologo super, un chimico più che altro. È lui che aggiusta tutto. Un po’ di pratiche di cantina, di microcose, e tutto va al suo posto. Otteniamo un vino che piace al consumatore. E il giudizio del consumatore per noi è l’unico che conta.
Cosa pensa dei vitigni autoctoni?
Gli autoctoni per come la vediamo noi se ne possono tranquillamente andare affanculo. O meglio, ci interessano nella misura in cui vanno di moda. In quel caso viva gli autoctoni, allora li facciamo anche noi.
Lei pensa che un vino debba rispecchiare l’identità del terroir?
Guardi, il terroir è una bufala che avete inventato voi giornalisti. Siete stati bravi però, alla gente il concetto è piaciuto. Tanto che adesso lo sfruttiamo anche noi. Pensi al claim della nostra ultima campagna: “Cà Furbin, terroir quotidiano”. Per sottolineare il fatto che il nostro è un terroir che te lo puoi portare a casa tutti i giorni, a prezzi contenuti. Per parafrasare Ennio Doris potremmo dire “un terroir costruito intorno a te”.
Avete anche un ristorante nella vostra tenuta
“Si certo come le dicevo lo facciamo per seguire la moda. Avere anche il ristorante non solo incrementa i nostri guadagni ma da anche al tutto una parvenza più autentica, più familiare direi”.
E la gente apprezza?
Si beve tutto volentieri. In tutti i sensi.
E l’olio? Mi lasci indovinare: ne fate poco, solo per gli amici, non è il vostro business…
Bravo! Vedo che si è sintonizzato sulla nostra mentalità! Questo è proprio ciò che dichiariamo noi. Ed effettivamente l’olio lo facciamo solo per i nostri amici. Che sono circa centocinquantamila, come le bottiglie che produciamo.
Come vede lei nella struttura di un vino la componente data dall’affinamento in legno?
È presto detto: abbiamo la linea “easy drink” che facciamo senza passaggio in legno. Poi la linea che abbiamo denominato “barrique”. Questa la facciamo buttando nelle vasche di fermentazione dei trucioli di legno, così alla brutto Dio per intenderci. Prima i saputelli volevano solo il vino passato in barrique, adesso invece va di moda dire che c’è troppo legno. E noi ci siamo fatti trovare pronti.
Qual è la filosofia del vostro chef?
L’assoluto disinteresse per il prodotto. Facciamo cotture lunghe in modo da sfiancare completamente la materia prima. Alla fine la rendiamo irriconoscibile. Questo è il motivo per cui possiamo anche permetterci ingredienti non di prima qualità. A noi piace dire che è il nostro segreto.
Lo chef ama poi la complicazione: aggiungere ingredienti e rifuggire la semplicità. Salse pesanti, abbondanza di condimenti e non essere timidi col sale. Ecco la nostra filosofia. E i clienti apprezzano. Altro che nouvelle cuisine o cucina creativa!
(da Horeca, maggio 2010)
Se ti piace la cipolla di Tropea sei un radical-chic. Radical-chic per loro è uno che ha i soldi per comprarsi la Porsche Cayenne, e invece non la compra. Con la parola radical-chic loro sottendono in realtà altri insulti. Primo: comunista. Secondo: antipatriottico. E da oggi: mangiatore di cose buone di qualità.
Se uno spende tutti i soldi per comprarsi la macchinona tedesca allora va bene, se ne spende ancora per il telefonino americano o coreano va sempre bene. Ma se compri il culatello italiano di qualità, se compri il lardo di Colonnata originale, allora no. Non va bene. Sei antipatriottico. Già avevano insultato il povero Alemanno dandogli del radical-chic proprio perché aveva difeso il culatello originale. Questi qui che chiamano gli altri radical-chic sono i popular-cheap. Non hanno nè la schiettezza e la dignità del popolo nè la classe e la cultura della borghesia. Sono lì a metà. Non vanno nè nei ristoranti stellati, perché sono in soggezione, nè in trattoria a mangiare le acciughe. Perché si sentono fuori posto anche lì.
Per loro il ristorante giusto è quello dove vanno Costantino e Lele Mora a mangiare i gamberoni (cileni, congelati). La trattoria la considerano radical-chic. Roba da gente col golf di cashmere che parla sottovoce, donne di classe, pochi telefonini che squillano.
I popular-cheap odiano chi mangia acciughe col golf di cashmere. I popular-cheap sono indomabili, vogliono il salmone in pizzeria c’è poco da fare. Vogliono il branzino al sale con la luce al neon. Vogliono il bancone con gli antipasti al buffet. Loro con la testa sono sempre alla Valtur.
Se non bevono il limoncello gli sembra di non essere neanche usciti a cena. Vogliono il gestore ammiccante che gli dice che il limoncello lui lo propone “già da prima che andasse di moda”. Lo fa sua nonna. A questi qui bisogna insegnargli che c’è qualcosa di più importante nella vita di un Porsche Cayenne in leasing. I soldi ad esempio, quelli veri.
(da Horeca, aprile 2010)
Al parmigiano gli stanno facendo un grosso mazzo. Lo violentano in modi crudeli. Piace molto sfregiare la forma intera, tagliarla a metà, offrirla in sacrificio. Soprattutto nei rinfreschi post conferenza o convegno. Allora tu vedi questi polsi pelosi, con gli orologi, i peli e i profumi che si tuffano nella mezza forma. L’interno della forma è come un cantiere. Il parmigiano da convegno è un ghiaione. È frantumato, sabbioso. Vedi questi visi paffuti, ma crudeli, con gli occhiali e l’incarnato unto da post-convegno. Animati da quella fame vorace e proibita del dopo lavoro. Del post cosa-noiosa. Vedi queste ditine che sfrigolano fra loro per pulirsi dal grasso di cui questo parmigiano da convegno gronda. È grassissimo, unto. Loro lo divorano come topi sapienti e nervosi. Un classico è che lo abbinano col prosecco, che loro per brevità chiamano “prosecchino”. I pezzi non hanno spigoli, sono smussati dalle dita che hanno cercato di romperli in parti più piccole. Non trovi pezzi belli netti, spigolosi. Non trovi la dignità rocciosa, quasi dolomitica, del Parmigiano vero, quello invecchiato. Quello non unto.
Ma poi gli hanno fatto anche altre cose. Lo hanno deportato negli autogrill. I cubotti siderali nel sacchetto. Buttato lì vicino al pericoloso prosciutto tondo rivestito di pepe. Che è una cosa stranissima, non ce l’ha nessun salumiere del mondo. Il parmigiano da convegno lo confinano vicino alla pasta del “borgo antico”. Fra Chi, Vanity Fair e le spazzole dei tergicristalli. O anche lo mettono vicino all’aceto “balsamico” e all’olio tartufato.
L’olio tartufato è un altro protagonista demoniaco di questi piccoli altari vodoo della gastronomia da autogrill.
L’olio tartufato è il Bin Laden dei prodotti alimentari. Fa malissimo. Ma si ammanta di nobiltà. I calciatori sono molto olio tartufato, soprattutto quando vogliono fare gli elegantini e mettersi la cravatta. Con il nodo allentato. Ma la cosa più olio tartufato è il Grande Fratello. Probabilmente nella dispensa della Casa l’olio normale non ce l’hanno neanche, hanno solo quello tartufato.
L’olio normale lo tengono nel Tugurio perchè secondo loro è da sfigati.
(da Horeca, dicembre 2009)