Scusa, tu ce l’hai un furgoncino bianco con la striscia rossa dietro? Ecco, perchè se non ce l’hai sei un perditempo, devo dirtelo. Ma te l’avran già spiegato loro, quelli col furgoncino, ogni volta che ti tagliano la strada, passano col rosso, svoltano senza freccia. E anche quando parcheggiano sul tuo passo carraio: “sto lavorando”.
Continui a non capire mi sembra. Ingegnere, cosa fai, il disegnetto del ponte? Coi calcolini per vedere se sta su? Ma dai, è lavoro quello lì? Il lavoro è solo quello che fanno loro, guidare furgoncini, scaricare tetrapack, maneggiare braghe in Teflon per il sottolavello. Tu te ne stai lì tutto il giorno in sala operatoria a fare interventi a cuore aperto, a giocare coi bisturini e i punti di sutura e lo chiami lavoro? Ma dai. Dove sei, in fabbrica, in catena di montaggio? Ma lì c’è il robottino che fa tutto lui ormai, basta solo che stai un po’ attento che la pressa non ti porta via una mano, dai, su. Al massimo ti colerà un po’ di piombo fuso in faccia. Vuoi mettere con loro, che son sempre lì a sgasare fra i vialoni e la circonvalla? Lo capisci che tutto il mondo grava sul loro furgone? È per questo che hanno sempre l’espressione cupa, severa, corrucciata, perchè son convinti che l’intero universo incomba sul loro furgoncino. Tutto il resto è una Gardaland spensierata di lavori inutili, che poi non si dovrebbero neanche chiamare lavori, perchè senza furgoncino bianco, bancali e braghe in Teflon non si può neanche parlare di lavoro in senso stretto. È più giusto chiamarli passatempi, svaghi, sollazzi, se non direttamente divertissement.
(da Style Il Giornale, settembre 2012)
Occhio a quell’uccellino lì di Twitter perchè non è innocente e ingenuo come sembra. É un rapace. Un potente geroglifico neo-pagano, quasi esoterico. Lo vedi appollaiato alla fine di molti annunci pubblicitari: è lui che concede il lasciapassare per la contemporaneità.
E tutti questi “copy”, ex-giovani in pantaloni militari e camicia, arrampicatori sociali travestiti da cazzoni creativi ancora indecisi se assomigliare a Nanni Moretti o a Lapo Elkann (ma che in cuor loro vorrebbero essere Flavio Briatore) tutti questi qui che fanno i disinvolti in realtà sono terrorizzati dall’uccellino. E non sono i soli: politici, attori, imprenditori, tutti lo temono.
E lui è sempre lì, irritante, muto, simbolico. Sembra silenzioso e discreto e invece urla continuamente: “ehi, la Rete sono io!”. Io sono la Rete, la Verità, la Democrazia. Ma anche ruffiano, seduttore di signore bene di mezza età politically correct che si sentono sbarazzine, sexy e quasi popolane a scrivere, anzi a cinguettare, “sapevatelo” e “capisciammè”. Insaziabile (lacchè e padrone al tempo stesso), riesce a far sentire “alla mano” gli intellettualoni di sinistra e “evoluti” i vecchi tradizionalisti di destra. Si è impadronito di un concetto-vagante fra i più sorprendentemente cretini degli ultimi tempi: l’imbecillissimo “Tempo Reale”.
È antipatico come Beep-Beep, quell’altro uccello, struzzo velocissimo, che faceva precipitare il povero Will Coyote nei canyon.
Ed è certamente più saputello anche di Topolino.
(da Style Il Giornale, agosto 2012)
Un governissimo di Tata Lucia di Sos Tata, ecco quel che ci vuole. Abbiamo bisogno della austera bonomia dell’Ausiliaria di Salò con la sua divisa, quasi Chanel, che sembra concepita da un Karl Lagerfeld tornato bambino, folgorato dall’immaginario manga delle sculture di Takashi Murakami. E rifinita dall’incredibile cravatta allentata alla Nichi “narrazione” Vendola. Tata Lucia: la versione cartoon di Angela Merkel. Tata Lucia: più potente anche di Emma “carbonella” Marcegaglia (il cui viso ricorda una bistecca alla brace cotta a puntino che ti aspetti di vedere guarnita da patatine al forno).
Tata Lucia: il futuro. Tata Lucia: l’unica che può dominare l’infallibile divinità astratta del momento: “i Giovani”. Un nome collettivo, senza volto o età precisa. Ma furbissimi. Sveglissimi. Saggi, equilibrati, contemporanei, spietati e glamour come Tyler Brûlé: alla Rivoluzione preferiscono la Start-up. Ingiustamente vessati. Da un Paese cattivissimo. E loro, poverini, tutto il giorno a farsi il mazzo in chat. Tutto il giorno a “geolocalizzarsi” su Foursquare, a caricar foto su Instagram, a macinare “connections”. Mentre quei fannulloni dei vecchi a cazzeggiare in fabbrica. A perder tempo in acciaieria con il metallo fuso. O in studio fino a sera a compilar 740 per clienti che non pagano. Ma adesso arriva Tata Lucia, a fare un governo di Giovani.
Probabilmente non avranno neanche bisogno di farlo il Governo, forse fanno direttamente una App.
(da Style Il Giornale, luglio 2012)
Lo slang della fretta inutile milanese si incarna nel “quando hai tempo”: lo senti al bar come introduzione per ordinare qualsiasi cosa, birra, caffé, panino. Quando hai tempo mi fai un caffé? Sembra amichevole e disimpegnato, in realtà vuol dire: immediatamente. Allora il barista si gira e dice all’uomo alla macchinetta: “aumenta un caffé”. Tanto varrebbe, per guadagnare secondi preziosi, rivolgersi direttamente al tipo che fa i caffé con un “aumenta un caffé”, così, tanto per saltare un passaggio. Anche il colpetto di clacson al semaforo appena scatta il verde sottintende un: “quando hai tempo ti levi dal *zzo?. Sarebbe da provarlo in un ristorante stella Michelin “Scusa quando hai tempo mi fai un piccione stufato a carbone con scaloppa di foie gras su letto di julienne di mandarino caramellato?” E poi mi raccomando, attenzione al “mi sembra strano” il potente passepartout del pianeta artigiani. Te lo dice il tecnico del computer o l’idraulico il giorno dopo la riparazione, quando gli spieghi che il problema si è ripresentato. Sembra un’affermazione di stupore e buona fede, di ingenua incredulità. In realtà è un insulto, mette in dubbio la tua parola, ti dà del quaquaraquà. Che bello invece il “ma dai”, fa rivivere il frizzante e simpatico menefreghismo degli anni Ottanta. Con un “ma dai” stronchi anche James Bond che ti racconta della fuga sugli sci. É molto da aperitivo a Brera, lo fai volare al Fioraio Bianchi, all’Ombra de Vin. Ma dai.
(da Style Il Giornale, maggio 2012)
Sbarcato in San Babila a inizio anni Ottanta fra bomber blu, Zündapp e berrettini a righe di De Carolis, tramontato negli anni Novanta quando Naomi, Linda e Marpessa giravano a piede libero per Milano e i paninari erano diventati “driver”, l’hamburger è tornato in campo. E non è più l’appiattito hamburgher bruciacchiato e rinsecchito delle origini ma un nuovo e poderoso hamburger tridimensionale, botulinizzato, cosmetico, seducente. È un hamburger pazzesco che sembra progettato da un designer, realizzato da un chirurgo estetico e venduto da un art director in fast food simili a showroom. E divorato da paninari quarantenni leggermente imbolsiti e in camicia bianca tutto l’anno. Educatamente “al sangue”, un sangue patinato, cinematografico, alla C.S.I. Invadente e sovradimensionato come un Suv.
Cafoncello ma anche un po’ fighetto, sempre attento a presentarsi con carne di Fassona, la più snob delle razze bovine, piemontese, sabauda, quasi aristocratica, la top model delle mucche, la Carla Bruni degli alpeggi.
l nuovo potentissimo hamburger Hulk-Burger, è la risposta maschia e sanguinolenta al sushi da modellina glamour. E stronca sul nascere la nuova mania del gnocco fritto, con contorno di Berkel rossa, culatello e lambrusco. Non so se sia più buono dei vecchi Big Mac.
Quel che è certo è che gli anni Ottanta erano decisamente meglio degli attuali: più Cash e meno Suv.
(da Style Il Giornale, aprile 2012)
La prima cosa che impressiona è la pelle, perfetta, leggermente fumè, come un alto di gamma di Alcantara, sintetica ma quasi umana, con toni di affumicatura che ricordano i migliori salmoni, se non addirittura le anguille, irlandesi.
Il sorriso carnivoro fa da contraltare al fisico asciutto che rivela un rigore vegetariano. Tutto è addolcito dai colori pastello, quasi golosi, delle sue mise. Friendly. Come un raffinato macaron di Ladurée. Ma sono le acconciature il suo pezzo forte, sempre uguali, eppure ogni volta leggermente diverse, come le grandi cuvée di Krug. Neanche acconciature: progetti. Ed è la sua testa, sono i capelli, vivi, da medusa caravaggesca, la fonte del suo immenso potere.
Paola Marella. L’icona di Real Time. La versione cyber-tech di Olivia Newton John in Grease.
Crudele come l’assistente di un dentista cattivissimo e costoso con studio in via della Spiga.
Le sue cotonature alla Dallas anni Ottanta sono avvincenti, leggere come un soufflè, peccaminose come un cono alla zuppa inglese della gelateria Rivareno. La sua messa in piega ultramoderna, 3D, renderizzata, affonda le radici nell’Art Nouveau, nella leggerezza dei vetri di Gallè e Daum, nell’architettura ludica di Antoni Gaudí. Le svolazzanti striature bianche rimandano all’immaginario disneyano della Carica dei 101.
La sua capigliatura è il Sole immobile attorno al quale gli architetti che la affiancano in trasmissione girano intorno come effimeri asteroidi, pianetini, comete. Quasi toy-boy.
(da Style Il Giornale, marzo 2012)
Stavo pensando di commissariare Monti e il governo dei tecnici. Mi piaceva farli controllare da tecnici più tecnici di loro. Da gente seria. La Triade di Masterchef. Gli metto sopra il Joe Bastianich, Carlo Cracco (che la gente in giro continua a chiamare Cracco-Peck pensando si tratti di un duca austro-ungarico decaduto e costretto per sopravvivere a rosolar piccioni) e il Bruno Barbieri, glamour ma inflessibile. Funzionerebbe così: i tecnici e il Parlamento fanno le leggi, dopodichè le presentano al triumvirato di Masterchef che decide se vanno bene o no. Questo sistema serve anche a far perdere ai politici la mentalità di “casta” e assumere quella di “concorrenti”. Devono arrivare dalla Triade già un po’ spaventati, quasi tremebondi, servendo la nuova legge “al vassoio”, sotto la cloche. A questo punto può succedere che al Bastianich gli girino e dica: “questa ti sembra legge di Stato?” (lui di solito quando un piatto gli piace dice: “questo è piatto di ristorante”). È capace che gli tira in faccia il documento, che gli dice “mani in aria”, come sa fare lui. Poi arriva il duca Cracco-Peck dà un’occhiata al decreto legge e fa: “il sociale tu oggi l’hai dimenticato a casa mi sembra”, lo guarda male e se ne va. Ma a volte potrebbero anche essere buoni, può succedere che il Barbieri li promuova: “oggi hai fatto una buona legge, sarai tu a scegliere il prossimo ordine del giorno alla Camera”. Ma il bello è che la stessa Triade potrebbe a sua volta legiferare, tipo una Cracco-Peck sull’immigrazione (ad esempio gli egiziani entrano solo quelli che san fare la pizza, i cinesi devono dimostrare padronanza con gli involtini primavera, i giapponesi si beccano il “pressure test” già in dogana, devono preparare la “barca” di sushi, così, al volo, su due piedi). Inoltre la Triade potrebbe mandare via i politici quando vuole. Li chiamano da loro a quattro, cinque, anche sei o sette alla volta, li schierano uno di fianco all’altro e ad alcuni dicono “oggi sei stato fra i peggiori, togliti la giacca, la tua avventura nella squadra di Governo finisce qua”.
(da Chef, gennaio 2012)
In giro è pieno di gente a cui piace definirsi “un tipo pane e salame”. A Milano molti di questi tipi li vedi in coda all’Hollywood, smaniosi di entrare al privè, ordinare Champagne e parlare di griffe con le escort. Però si definiscono “pane e salame”, allora ok.
Se tu sei uno “pane e salame” vuol dire che sei alla mano, cioè che non stai lì a usare troppi congiuntivi. Non stai lì a fare l’educatino, a essere discreto. No. Spandi, esibisci, offri Champagne, corri in bagno per la polvere bianca, fai balenare carte di credito, vanti conoscenze altolocate: però sei pane e salame. Ah beh. Come mai non esite nessuno che per far capire che è alla mano si presenta con un bel “ciao, io sono un tipo camicia-di-due-stagioni-fa e conto-in-rosso”?. Oppure “eilà, non formalizzarti tanto io sono un tipo fiat-regata e Idroscalo”. Perchè nessuno si definsce “duna e kebab” o “dacia e discount”? Invece è pieno di gente “pane e salame” in giro in Audi, e ragazze alla mano che scendono da Porsche Cayenne.
Non si vede nessuno con la voglia di volare alto, qualcuno che abbia l’eccentrica impudenza di definirsi un tipo “Joselito e Sankt Moritz” o “Bugatti e Beluga”. Io lo vorrei subito come amico un “Bugatti e Beluga”.
Perchè, anche umanamente, cos’ha da dirmi un tipo “pane e salame”? Lo so già cosa mi vuol dire, che Gattuso è un campione, che nei ristoranti di alta cucina le porzioni sono piccole, che l’euro ha fatto raddoppiare i prezzi, che in corso Como c’è un sacco di gnocca.
Il tipo “pane e salame non ha mai niente di nuovo da dire.
E invece: quale meraviglioso mondo si dispiega dietro un tipo Bugatti e Beluga? Qual’è l’affascinante origine delle sue fortune?
Quale mentalità e percorso l’hanno portato ad essere un “Bugatti e Beluga” in un mondo di pane e salame?
(da Chef, ottobre 2011)
Volevamo capire i segreti di un ristorante di successo, quelli che fanno i grandi numeri non alta cucina. Abbiamo intervistato il titolare di un ristorante pizzeria, specialità pesce e carne alla griglia, Egidio Schiaffoni della pizzeria ‘A Bella Munnezza.
Signor Schiaffoni qual’è il segreto del suo locale?
La prima cosa è capire il cliente, entrare nella sua mentalità. E la mentalità dei nostri clienti è che sono incazzati neri. Quando tornano a casa trovano figli che li detestano e mogli che non gli perdonano di contare meno di Scilipoti. E loro, a loro volta, non perdonano alla moglie di non essere una velina. I figli si sentono vip, si considerano alla pari dei protagonisti del GF (e in effetti lo sono) e disprezzano i genitori che lavorano tutto il giorno per poi non avere nemmeno i soldi per il Suv.
Bella analisi sociologica ma cosa c’entra col ristorante, col cibo?
C’entra eccome, perchè tu il cliente lo devi far sentire a proprio agio.
In che modo?
Semplice. Lo accogli con uno schiaffo in faccia. Per farlo sentire subito a casa. Il nostro cliente non è abituato alla gentilezza, se sei gentile pensa che lo prendi in giro. Che sei affettato. Che sei falso. Che sei gay. Che sei comunista.
Quindi?
Beh, lo schiaffo è metaforico naturalmente. Però certamente non è che lui arriva e voilà, “prego” “la accompagno subito al tavolo”. Manco per il caz***. Nemmeno se ha prenotato. Prima lo teniamo un pò in piedi, pressato all’ingresso, deve sentirsi fuori posto, cioè come a casa sua appunto. Deve vedere gli altri che mangiano, provare invidia per quelli che sono seduti. In sostanza guardare gli altri e invidiarli, come fa a casa davanti alla Tv. Poi arriva il premio. Lo portiamo al tavolo. Deve seguire il cameriere mentre si fa largo, camminando di traverso. Il cameriere non lo guarda neanche in faccia e durante il tragitto prende un paio di ordinazioni al volo. Così riesce a far sentire fuori posto sia il cliente che sta accompagnando al tavolo che quelli le cui ordinazioni ha preso al volo.
Com’è il vostro cliente prediletto?
Per come sono fatto io preferisco parlare in negativo, e dire com’è il cliente che non ci piace. Diciamo che non amiamo chi fa domande. Non ci piace il cliente curioso. Non ci piace la curiosità in generale. Pensi che una volta un cliente ci ha chiesto il nome del produttore di un vino che avevamo in carta.
Ah! Beh, mi sembra lecito no?
Non qui. Se vuoi sapere questo genere di cose vai in quei ristoranti per chiacchieroni eleganti dove a prendere la comanda viene uno in divisa. Da noi non vieni a fare tutte queste domande. E da dove viene il vino e chi lo fa e che anno è… ma scherziamo? Ma chi ti credi di essere a fare tutte queste domande, Saviano? Sei Saviano?
Ma perchè il cliente torna se lo strapazzate così?
Eeeeh! È qui che viene il bello. Se non ritornasse più ammetterebbe implicitamente, con se stesso, ma anche con sua moglie, di essere stato trattato male. Questo urterebbe il suo concetto di virilità. A volte le signore, che sono molto più sveglie, si accorgono della nostra scortesia e la fanno notare ai mariti.
E il marito?
Come le dicevo, per non sentirsi “mancato di rispetto” fa finta di non accorgersi dei nostri modi. O addirittura accusa la moglie di essere lei a vedere sempre le cose in modo negativo.
Ma lei è un grande! È un filosofo del livello di Michel Focault!
Eh sì. L’autore del famoso “Sorvegliare e Punire”. Mi è piaciuto molto il titolo, al quale mi sono ispirato per la filosofia del mio locale. Il resto del libro non l’ho letto.
E quali altri vantaggi porta, trattare male i clienti?
L’obiettivo, come ormai avrà capito, è mettere il cliente in uno stato di soggezione continua. Se il cameriere ha sempre fretta e si mostra nervoso, ecco allora che il cliente, ci penserà due volte a far domande inutili, il sale l’olio, la fattura.
Ah perfetto, allora meno fatture e più Schiaffoni per tutti!
(da Chef, luglio-settembre 2011)
Stavo pensando a cosa succederebbe se il linguaggio politico, in particolare quello inventato dal Presidente del Consiglio, incentrato più sulle definizioni ideologiche dei suoi competitor che sui fatti veri e propri, venisse adottato nel mondo dell’enogastronomia. Diventerebbe un mondo dove se uno sente il tappo nel vino, non è perchè ne avverte il sentore ma perchè è lui che è “antisugherista”. O “siliconista”. O peggio “vetero-tappovitista”. Sarebbe appassionante la lotta interna fra “bollicinisti”, coi prosecchisti veneti a urlare ai franciacortini “Siete i soliti vecchi champagnisti di sempre!” e questi di rimando “Chi non salta prosecchista è, è!”. Ci sarebbero produttori bio che dichiarano: “Ho già dimostrato al di là di ogni incontrovertibile dubbio che la solforosa non esiste”. Forse però ci si potrebbe anche comprare una bella tenuta nelle Marche e poi farci il Chianti, perchè no? Si cambia il disciplinare del Chianti senza problemi, si fa “ad tenutam”.
In cucina ci sarebbero gli “antimolecolaristi” gli “antiadriaisti”, i “creativisti” ma forse anche i “tecnoemozionalisti” e di sicuro, come in politica, “i vecchi professionisti della cassoela”, oltre a ristoranti che potrebbero esibire chef che vengono “dalla società civile” anzichè dalle cucine.
E non potrebbe mancare il “teatrino delle stelle Michelin”. Immagina che strilli a Merano o a Verona a discuter di botti dopo qualche bicchiere, coi barriquisti che urlano “Vergogna! L’unica cosa che vi tiene uniti è l’odio per la barrique!” e gli antibarriquisti di rimando “Non cambiate mai! Siete i soliti vecchi legnopiccolisti!”. “Brunellista!” “Antisauvignoniano!”. Ci sarebbero anche i giornalisti Responsabili (dei cripto-scilipotiani) pronti a diventare tavernelliani o tetrapackisti, folgorati sulla via di un viaggio stampa, tutto è possibile.
(da Chef, maggio 2011)